30 aprile 2009

The best there is, una recensione di WOLVERINE

Wolverine è uno di quei personaggi Marvel che o si ama o si odia, ma che è ormai inestricabilmente legato nella mente mia e di tutti all'attore australiano Hugh Jackman. Di Jackman si è detto tutto, ma soprattutto che detiene forse il primato di attore più desiderato e desiderabile del pianeta, il tipo di uomo che le donne desiderano e gli uomini vorrebbero essere (o viceversa, spesso), capace di reggere con la sua sola prestanza fisica un intero film.

X-MEN LE ORIGINI: WOLVERINE, quarto film della Fox dedicato all'universo mutante ideato da Stan Lee, Roy Thomas, Chris Claremont e compagnia, è in tutto e per tutto un film Jackman-centrico, ma allo stesso tempo piacevolmente corale. Personaggi mutanti di ogni genere, da Ciclope e Blob (classe 1963) fino ai vari Deadpool, Gambit, Wraith, Sabretooth e Zero della generazione '90s, si avvicendano sullo schermo, in una storia che dal 1845 ci porta fino agli eventi che precedono il primo film degli X-MEN.

X-MEN LE ORIGINI: WOLVERINE risponde a molte domande, ponendone altre, si allontana dalle origini fumettistiche dei personaggi, per poi riavvicinarsi, e mescola il tutto, lo frulla quasi, con idee nuove, diversi colpi di scena che non ti aspetti, e una "hollywoodizzazione" (perdonatemi il neologismo) dell'epica di Wolverine a un tempo fedele alle idee dei fumetti ma anche profondamente revisionata e ripensata. E come sempre nei film Marvel di questo secolo, l'equilibrio tra quanto si lascia dei comics e quanto si modifica per creare un film di valore, sta tutto su un discrimine sottile, che a seconda dei punti di vista verrà considerato centrato oppure fallimentare.

Per me, tutto sommato, questa ricreazione del mito di Wolverine, della sua formazione, delle sue origini, della sua militanza in Weapon X, della sua amnesia, del suo rapporto con Sabretooth, è ben riuscita, è come una "versione movie" della continuity mutante, che già abbiamo visto modificata e modernizzata in ULTIMATE X-MEN, e che alla fine ha una sua logica e una sua bellezza anche in questa versione filmica.

Già, bellezza, perché a parte tutte le considerazioni da "Marvel fan" di cui sopra, il film X-MEN LE ORIGINI: WOLVERINE, si lascia vedere con piacere, è ricco di scene di combattimento perfettamente coreografate, di effetti speciali che hanno dell'incredibile, inseguimenti che non lasciano respirare, e lascia alla fine un buon sapore in bocca. Siamo dalle parti di film Marvel di buon livello, magari lontani da picchi come IRON MAN, ma decisamente nella fascia alta. Diciamo un film da "7+", da vedere decisamente, anche solo per rimanere impressionati dalla recitazione muscolare e allo stesso tempo incredibilmente "sensibile" di Jackman. Che prende pugli e pallottole, si butta giù da aerei ed elicotteri, ma rimane umano e fragile, con quello sguardo a volte indifeso, straziato, i capelli lunghi che non rimangono mai in piega e che accompagano i colpi, le botte, il sudore, e poi ovviamente il corpo perfetto, sanguinante, aperto, nudo anche quando è vestito, impossibilmente perfetto ma reale, simulacro di ogni umanità, di ogni dolore.






27 aprile 2009

Vedi Napoli e.

A Napoli non ci andavo dal 2003, da ben prima di iniziare questo blog o il precedente. E in questi sei anni il Comicon, la manifestazione sul mondo del fumetto della città campana, è cresciuta e maturata a tal punto da sfidare sul terreno più arduo gli altri grandi festival dei comics, non dico italiani, ma addirittura europei. Merito del direttore Claudio Curcio, che in undici edizioni ha saputo costruire un evento che ha le sue radici nella città, un sacco di sponsor, un programma di mostre e di ospiti con pochi rivali. Basta pensare che quest'anno (colore ufficiale: il giallo) erano sulla scena Leo Ortolani, Massimo Carnevale e Tanino Liberatore, tre maestri per certi versi lontanissimi, ma ben assortiti, oltre ad altri autori dal Portogallo e dalla Cina, e facevano bella mostra di sè in cima a Castel Sant'Elmo, in uno degli edifici adiacenti alla Piazza D'Armi. E alla sera a cena ho mangiato una serie di piatti minuscoli ma tutti inevitabilmente gialli, insieme a quei tre autori ma anche a Ivo Milazzo, Eduardo Risso, Alan David, Massimo Giacon, Paco Roca, e una fila inesauribile di autori di mezzo mondo, tutti uniti nella degustazione culinaria in zona Via Chiaia e nel godimento di una città unicamente ospitale.

I risultati si sono anche visti a livello commerciale, con un "tutto esaurito" il sabato, che ha causato la chiusura degli ingressi, come di rado avviene in eventi del genere.

A Napoli ci sono stato pochissimo, due notti e un giorno, giusto per vedere com'era diventato il Comicon, ma ho finito per perdermi in uno spazio e un tempo umani e di sensazioni molto più vasti: la città che sovrasta i sensi, con la sua grandiosità decadente e barocca, fatiscente e maestosa, la notte calda in cui osservare il mare parlando di cinema, di Clint Eastwood e della complicata esegesi di Rat-man, l'attraversamento nel sole di Piazza Plebiscito (con tentativo vano di attraversarla a occhi chiusi in linea retta), e poi Castel Sant'Elmo, il MADRE, tanti fumetti d'autore o meno.

A stare qualche ora al Comicon si capisce non solo che questa città è viva, e abbraccia con abbandono il mondo delle strip e dei fumetti, ma anche che il mondo dei comics sta vivendo, un questa temperie di crisi mondiale e di rivoluzione nella fruizione dei media, una sua stagione di incredibile sviluppo e creatività. A parte gli stand Panini, Rizzoli e Planeta, alla fiera era tutto un pullulare di editori di piccole e medi, con una produzione autoriale tutta nuova, da Becco Giallo a Tunué, da Black Velvet a  001 Edizioni, come una nuova ondata di produzione di autori che usano il formato del romanzo grafico e il modello economico del volume da libreria prezzato 12-15 euro per raccontare nuove storie in modo nuovo. Un'ondata di cui ho acquistato una serie di volumi e che conto di recensire in futuri post di questo blog.

In sintesi, una manifestazione che continua a crescere, ma che ormai - Lucca a parte - rischia di diventare la seconda in Italia per gli aspetti culturali, l'organizzazione, e la partecipazione del pubblico.



11 aprile 2009

Silence, please


R.I.P.
Inserito originariamente da Ogami Sensei

La notte di domenica, a Bologna, nella mia casa al quinto piano, tra San Luca e il Ravone, non ho quasi dormito. E da noi, il terremoto non si è sentito, ma una sorta di malessere mi aveva preso, una selva di pensieri terribili mi tormentava, senza motivo, senza ragione. Alle 4.30 ho ceduto a un sonno leggero, e alle 8.00 mi ha svegliato l'SMS dell'ANSA che comunicava a tutti dell'avvenuto terremoto in Abruzzo. All'Aquila.

Non so quanti dei miei amici e conoscenti emiliani e settentrionali conoscano personalmente l'Aquila. La città se ne sta lì, dietro il Gran Sasso, un po' defilata rispetto all'Adriatico, con quel suo orgoglio abruzzese, marsicano, un po' ruvido ma composto, nobile, accogliente. In alto, con le sue novantanove piazze, le sue novantanove chiese, le sue novantanove fontane. Un capolavoro di architettura. Un tesoro, necessariamente, nascosto.
All'Aquila ci sono stato spessissimo, nell'infanzia, nell'adolescenza, fino ai vent'anni. Mia madre è di un paese a pochi chilometri, Antrodoco, un ultimo scampolo di Lazio che gravita tra Rieti e l'Aquila, e ogni estate si finiva nel capoluogo abruzzese a salutare gli zii e i cugini, a girare per i mercati alla ricerca di pentole in rame, provviste di zafferano, salumi, confetti. All'ospedale dell'Aquila ci sono stato a vedere mia nonna malata, per le strade del centro ci ho camminato con mio fratello, mia madre, con ospiti che venivano a trovarci da Bologna e rimanevano a bocca spalancata davanti a quel gioiello nascosto, così spettacolare e defilato. Ci ho riso, giocato, fatto foto, comprato fumetti, corso sotto il sole di tanti agosto,

Non riesco a pensare che adesso L'Aquila sia una città fantasma, popolata dagli spettri di chi non c'è più, di chi se n'è andato, di chi non riuscirà a tornarci. Non riesco a sopportare tutto il dolore. Non riesco a vedere la TV, mi limito alla radio, a internet. Tutto il chiacchiericcio, la ricerca dello scoop del dolore, mi sembra insopportabile.

Non riesco ad indignarmi veramente per Berlusconi che invita i terremotati a pensare a quest'esperienza come una vacanza in campeggio, che preferisce spendere 400 milioni di euro per non fare l'election day, o per i politici che inseguono le telecamere a fianco delle tendopoli. Non riesco a indignarmi per lo show continuo di Vespa, per le troppe parole, per le troppe fesserie. Non riesco a indignarmi per le norme sismiche non seguite, per i lavori pubblici eseguiti in regime di corruzione e malversazione permanente.

Non riesco a indignarmi, ADESSO. Ci sarà tempo per tutti i distinguo, per tutti i redde rationem, per la giustizia (che sarà comunque beffata, alla fine).

Adesso. Qui e e ora.

Adesso c'è troppo dolore vero, troppa morte vera, troppa umana miseria e impotenza davanti alla furia della natura, al pianeta che ogni tanto ci ricorda che siamo solo ospiti, siamo solo microbi sulla scala geografica e storica del mondo, e possiamo essere spazzati via in una notte di primavera, in un attimo, in un soffio.



05 aprile 2009

Gran Torino, e dopo

Sono stato a vedere Gran Torino, ed inevitabilmente ho pianto.
Non che il film sia volutamente strappalacrime, anzi. Ha moltissimi momenti divertenti, commoventi, e solo nel finale, inevitabile, durissimo, ma anche liberatorio, quasi consolatorio, raggiunge il culmine, quell’apice di emozione che arriva a toccarci oltre il convincimento del nostro distacco, il distacco tra noi che stiamo al di qua del quarto muro e la fiction che viene riprodotta davanti ai nostri occhi.
Insomma, alla fine, vedere Clint Eastwood andare incontro al suo destino, con questo piglio da duro che conosciamo bene e ci aspettiamo, ma che qui è alla fine tenero, indifeso, tocca le corde del profondo; con la complicità di una colonna sonora che solo alla fine trabocca sull’emozionale, ci si ritrova con la faccia solcata di lacrime, a piangere come ragazzini.
Poi, sono uscito, con i miei compagni di cinema, e siamo andati a bere qualcosa al bar davanti al cinema, in uno di quei centri commerciali/multiplex/multisala che possono essere a Casalecchio, Cracovia o Albuquerque, ma sono comunque identici: similazioni sintetiche, di acciaio e vetro, di centri urbani vivi e di cui presto non ci rimarrà che il ricordo. E in questo bar, circondato da ragazzi ventenni, con look, facce, destini e illusioni la cui lontananza da me inizio veramente a sentire un po’ in questo periodo, ho avuto solo per un attimo dentro di me una sensazione di spaesamento generazionale c culturale, forse parente di quella che sente Walt, il personaggio di Clint Eastwood in Gran Torino. Solo per un secondo, e ovviamente non così netto come il gap tra Clint e i suoi vicini asiatici, ma sì la sensazione che nella liquidità del mondo ci si può perdere, in questo traboccare di differenze, di mescolarsi di generazioni, etnie, orientamenti, idee, origini, destini. Solo per un attimo sono rimasto in piedi a guardare tutta quella gente, in quel posto così artificiale e così reale, sentendomi a loro estraneo e vicino, proprio come Walt nel giardino dei suoi vicini asiatici.

Un attimo, solo un attimo, quasi avessi premuto "pause" sul telecomando della vita, per poi ripremere subito "play" ed immergermi di nuovo nella musica, nelle parole, nella sera, in un qualsiasi mercoledì, in una qualsiasi città del mondo.