21 giugno 2010

Above us only sky





La terra era marrone scuro, compatta, piena di sassi, radici. Abbiamo scavato con una zappa e una vanga, dandoci il cambio, due minuti a testa. Alla fine ci siamo messi in ginocchio e abbiamo finito il lavoro con le mani; e quel cielo infinito e implacabile sopra di noi, solo azzurro e nuvole e luce e un temporale in potenza e tutto il dolore del mondo, del nostro mondo, in quel corpicino avvolto in un lenzuolo bianco, il corpo di Emma, il corpo della nostra gatta.



Un dolore così è come un fiotto di sangue inarrestabile che parte dalle orecchie, dai canali lacrimali a fianco del naso e arriva ai piedi, e nel mezzo ci sono la pancia, i polmoni e il cuore, e hai l'impressione che sia tutto liquido, che il corpo sia liquido e bollente e che non ci sia un confine alla pena, allo strazio.



L'amore per un animale non passa per il cervello, non ha nulla di intellettuale. E' tutto istinto, è tutta emozione. Un gatto è la parte più segreta e misteriosa di noi, quell'andare-verso che rimane un restare-soli, un annusare e un abbracciare e un restare diffidenti. Un gatto è l'enigma della vita, non è mai nostro, è il nostro coinquilino, il nostro ospite desiderato, invincibilmente indipendente. E' il nostro amore.



E quando muore, quando dobbiamo dargli l'ultimo addio, quando gli diamo l'ultimo bacio, l'ultima carezza, e gli teniamo la mano sul costato mentre si addormenta per l'ultima volta, muore una parte di noi, muore quel pezzetto della nostra vita che ha respirato con lui, che infinite volte ha camminato per casa, sul terrazzo, ha dormito su divani, letti, pile di golfini, tappeti, vasi, scatole di scarpe.



Ed è un lutto che non ti aspetti, un'onda che ti travolge. Il cervello può minimizzare, può mettere in prospettiva, ma la pancia e il cuore ululano, gridano, impazziscono, per la perdita di un essere che ci ha accompagnato, cullato, accarezzato, e che si è presa magicamente cura di noi, in infinite notti, in infinite giorni, vegliandoci e proteggendoci con una magia che mai capiremo, ma che è antica di millenni, ed è il patto segreto tra l'animale domestico e l'uomo.



Emma come tutti i gatti aveva le sue peculiarità, le sue idiosincrasie, e nel ricordarla mi sembra davvero di ricordare una persona, unica nell'universo, unica nel mio cuore. Emma mi svegliava tutte le mattine, con tecniche raffinate che andavano dal leccarmi la pelata al gettare per terra con le zampe le pile di fumetti sul comodino, o gli occhiali. 



Emma non si limitava a mangiare con la ciotola, ma prendeva il cibo con le zampe e se lo portava al muso, quasi fosse un umano, quasi volesse imitare i suoi due padroni, i suoi genitori. E questo rendeva l'angolo delle sue ciotole un perenne caos di resti di cibo, che pazientemente andavano lavati e scrostati.



Ma questo era l'unico difetto della nostra gattina, che per tutto il resto si comportava in maniera esemplare: non miagolava, non si faceva le unghie sui mobili (preferendo una delle piante del terrazzo, sui cui ora resteranno per sempre i resti di dieci anni di convivenza felina). Disdegnava il cibo umano, e si poteva lasciare qualsiasi tipo di carne o di pesce sulla tavola o sul lavandino, certi che non avremmo trovato mai Emma intenta a mangiarselo. 



Emma se ne stava a dormire, da sola o in nostra compagnia, sulle nostre pance e le nostre ginocchia, salvo i momenti in cui usciva in terrazza, forse saliva sul tetto, e si dedicava ai misteriosi passatempi dei gatti domestici: stare appostata a controllare piccioni e corvi, dare la caccia ai pipistrelli, mangiare le foglie, restarsene appollaiata a controllare chissà cosa, enigmatica e sola, eppure sempre presente, un'essenza che in ogni istante sentivamo nella casa.



A volte si infilava nel guardaroba, e ogni volta che si usciva di casa il rituale era andare a controllare se non fosse rimasta chiusa dentro, come parecchie volte era successo, una addirittura per 24 ore. 



Emma era così. Emma era il nostro amore. Non c'è altro modo per dirlo. Emma sentiva il dolore, sentiva la tristezza, e veniva da te, a strusciarsi, a salire sulle ginocchia, a impastare con le zampe la tua pancia. Emma ti leccava le mani e il viso, se voleva. Emma sapeva salvarti la vita, sapeva dirti "vivi" quando ti sentivi morire, Emma era magica, dolce, sottile, discreta, ruffiana. Decideva chi gli piaceva e chi no, e snobbava certi amici e ne adorava altri, e si nascondeva durante le feste, salvo poi presentarsi verso la fine, a fare un giro, vedere chi c'era, dispensare qualche moina ai suoi preferiti, per poi tornare sul tetto o ai piedi del cipresso in terrazza, a guardare la luna.



Quando dopo sedici anni se ne è andata, portata via come capita quasi sempre da una nefrite, dalla perdita di funzionalità dei reni, il dolore mi ha travolto, ci ha travolti. 



Adesso Emma riposa nella terra della casa sul Sillaro, ai piedi di una grossa roccia che sembra quasi un altare celtico, in mezzo a un bosco di querce. Abbiamo scelto un punto da cui si vede la valle, un piccolo quadrato di terra su cui abbiamo posto una lastra di pietra, qualche fiore di campo, un po' di muschio. E una sola parola incisa con un sasso: Emma. Solo questo.



E dopo il funerale, nella casa vuota, nel crepuscolo assolato di un 17 giugno impossibilmente luminoso, ho pulito per l'ultima volta le sue ciotole e sono uscito sul terrazzo che lei tanto amava, pensando che non sarebbe mai più stato lo stesso, che non avrei mai più potuto aspettarmi di vederla sopra un vaso, o accovacciata sul muretto a fissarmi. 



E in quel momento l'ho sentita, ho sentito la sua presenza, ho sentito che c'era ancora, che non se n'era mai andata, che era pronta ad asciugare le mie lacrime, e a dirmi ancora una volta: vivi.

15 giugno 2010

30641_462105048064_791333064_5986267_4361864_n Ecco. Me ne sto al buio e al silenzio nella tana del telefono amico,
senza TV e senza radio e con un PC che ha ubuntu come sistema operativo e
nessun plug in per vedere alcun tipo di streaming.
Ecco. Me ne sto
al telefono amico e non chiama quasi nessuno, salvo un utente abituale
che chiama sempre e stiamo al telefono e lo faccio parlare, partendo da
una foto misteriosamente scomparsa, di cui è rimasto solo il vetro.
La
foto, si è persa, una foto di sconosciuti, una foto non sua, una foto
non mia. Ma si parte da quella cornice ormai vuota, misteriosamente
vuota (perché nulla si perde mai, nulla, e niente scompare nel vuoto,
no?). E lui esplora il suo passato, i suoi nonni, le generazioni
passate. Storie di padri e di figli. Di amore e violenza. Di fuga e
resistenza. E non di amore. Proprio no. Di una vita senza amore. E io lo
ascolto, mentre in lonrtanaza sento le urla dei tifosi. Stiamo
perdendo. O vincendo. O pareggiando.

Non lo so.

Come il
gatto di Shroedinger me ne sto un minuto nell'indefinitezza. Possiamo
aver segnato loro, possiamo aver segnato noi, ma che importa?

Ascolto
il mio utente parlare, lo saluto, mi congedo, prendo una mentina,
mangio una delle gallette di mais che mi sono portato per cena, mi
scatto una foto (di profilo) qua nel buio, e me ne resto in silenzio a
pensare.

Pensare al cielo che era così azzurro oggi che anche un
palazzo anonimo di via Andrea Costa, color grigiotopo, si stagliava con
così tanta forza che avrei voluto fermare la macchina alla rotonda della
ICO e prendere la macchina fotografica e bloccarlo, quel cielo,
quell'azzurro, quel contrasto urbano così assoluto da mozzare il
respiro.

Pensare alla mia gatta Emma, che anche oggi è arrivata alla
fine del giorno, con une flebo, una pastiglia, un clistere, e che si
trascina sul pavimento di casa, debole e scricciolo, ma ancora
orgogliosa e bellissima e austera, la stessa divinità che ha vegliato
per sedici anni sulla vita mia e dei miei cari, e che continuerà a farlo
dal paradiso dei felini, prestissimo.

Penso alle lacrime che mi
vengono adesso, a tutte quelle che ho versato in questo anno, per
dolore, per rabbia, per amore, per la gioia, la felicità, l'abbandono,
il piacere, la perdita, il rimpianto.

Penso a quello che bisogna
dire per lasciare andare, e per tenere, e conservare. A quello che si
perde e a quello che si guadagna.

E come un gatto di Shroedinger
pentito, scrivo queste righe, e poi vado su Twitter. A vedere chi ha
segnato. Bianco o nero. Sì o no. Sì, diciamo. Sì.