31 marzo 2009

Perduti

Il 6 aprile ricomincia su Sky, LOST. Quinta stagione. Ma per moltissimi che leggono queste righe, è una non notizia, dato che più di qualsiasi altro serial americano, LOST è scaricato sulla rete, in tempo reale. Ogni settimana. Persino io, che sono pigrissimo e assolutamente contrario al download, non resisto alla tentazione ogni giovedì di scaricarmi la puntata di Lost andata in onda in USA il giorno prima. Con i torrent si ottiene il file in un'oretta, basta una chiave USB per passarla al DVD player e a guardarla con una definizione e un sonoro di ottimo livello. Mi chiedo, e spero che qualcuno di Sky sia all'ascolto, cosa impedisca a Sky di mandare in onda le puntate in inglese in contemporanea con l'America, magari in un canale apposito (facciamo SKY USA o SKY ORIGINAL), e poi doppiarle per il grande pubblico in un secondo tempo. Almeno potrebbe guadagnare con la pubblicità, e darebbe un freno al fenomeno dei download in crescita esponenziale.

A parte queste considerazioni oziose, due parole su LOST 5, dopo il consuesto spazio

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Se nella quarta serie si erano intravisti alcuni elementi propriamente fantascientifici solo nell'episodio THE CONSTANT e ovviamente nel finale, in questa quinta produttori e sceneggiatori sbrigliano le redini, e si entra nel tema che fin dall'inizio si poteva intuire in LOST: il tempo. I viaggi nel tempo. I paradossi temporali. La coesistenza delle cose, simultaneamente, in tempi diversi, in ere diverse. Ma non in realtà diverse, dato che la premessa di Abrams sembra essere "quel che è avvenuto, è avvenuto", e quindi andando nel passato non si finisce in mondi paralleli, ma si finisce per far avvenire proprio quel si sarebbe voluto evitare, per chiudere il cerchio e causare le cose come stanno/come stavano/come staranno.

E guardando le gesta di Sayid, Sawyier, Jack, Locke, Hurley, Jin, Kate e Juliette, finiti nel 1977 nel più impossibile dei rendez-vous spazio-temporale, mi viene da pensare che forse tutte le anomalie dell'isola... le donne incinta che morivano, la fonte di energia in fondo alla botola, Jacob, il mostro di fumo, gli orsi polari... sono state proprio causate dalla presenza sull'isola degli esiliati temporali dal 2007, in un loop, un serpente che si morde la coda, un po' come la storia della Sfinge marvelliana, che torna nel passato a dannare se stesso.

Staremo a vedere, mancano solo poche puntate alla fine della quinta stagione, cui farà seguito un sesta e conclusiva. Quello che continua a prendermi, in queste puntate, è il mix di fantastico e umano, di impossibilmente assurdo e di emotivamente credibile. Da un lato, il puzzle di paradossi e riferimenti incrociati. Dall'altro, le sensazioni e gli amori, le amicizie e gli odi, di questo cast che è ormai diventato un'icona di inizio secolo, un mosaico di personalità e personaggi che con il loro rimanere ancorati in un desiderio di normalità nonostante l'assurda anormalità del loro pelegrinare nello spazio e nel tempo, ci permettono di rimanere nella storia e sentirci coinvolti come in pochi altri serial TV, forse in nessuno...




25 marzo 2009

Non si parla di politica

Non parlo di politica su questo blog, di politica vera, non di temi morali, da quasi un anno. Come molte persone di sinistra, la vittoria schiacciante di Berlusconi l’anno scorso e il fondamentale stallo del PD, sono state un colpo così duro che si fatica a mettere nero su bianco quello che si pensa. Anche con gli amici, con le persone che condividono più o meno le mie idee, è diventato così penoso parlare di politica, che a malapena si fanno degli accenni. Lo sfascio è così profondo, la situazione così grave, che gli uomini e le donne con il cuore a sinistra – scusate se mi permetto di parlare collettivamente – se ne stanno un po’ in campana, accucciati, sentendosi a volte come i passeggeri involontari su di un autobus guidato da un autista mitomane, incosciente, che guida a 200 all’ora su una strada di montagna, a fari spenti nella notte, cantando a squarciagola, mentre noi ce ne stiamo in fondo sulla nostra poltrona a fare gli scongiuri, o far finta di dormire, o guardando fuori un paesaggio lunare sempre più desolato.

E la verità è che non possiamo fare (quasi) nulla. Berlusconi ce lo siamo scelti noi. Collettivamente. Credo profondamente che in una società evoluta ogni persona si scelga il proprio destino, che solo recuperando il senso di responsabilità di ognuno per se stesso si possa ottenere quell’onestà intellettuale e umana indispensabile alla crescita. E allora l’Italia ha scelto Berlusconi. Punto, Si merita un governo catto-fascista, un premier che vuole governare legibus solutus, intoccabile dalla legge, senza nemmeno sentire il parlamento. Legiferando come Santa Sede comanda nelle questioni morali e come Umberto Bossi comanda nelle questioni di immigrazione e federalismo, continuando a distrarre l’opinione pubblica e facendo passare il messaggio letale che dice “L’Italia è messa meglio degli altri paesi. L’Italia supererà la crisi meglio degli altri”. Dominando i media. Zittendo i magistrati.  

Il vecchio detto “Calunnia, calunnia, qualcosa resterà”, diventa “Menti, menti, qualcosa resterà”. E intanto, mentre i fatturati della pubblicità calano ovunque, quelli di Mediaset, rimangono gli stessi, dato che nessuna azienda sana di mente deluderebbe il premier in un momento in cui gli aiuti di stato stanno diventando indispensabili.

Ma, dicevo, innegabilmente Berlusconi ce lo siamo collettivamente scelto, e ce lo meritiamo. Chi non l’ha votato, chi disprezza profondamente lui e il suo modo di fare politica, è in una sorta di shock permanente, soprattutto perché non c’è oggi una opposizione plausibile, anch’essa divisa, priva di progetto, arroccata sul vecchio. Sono stato alla Festa dell’Unità lo scorso settembre. Sono andato allo stand del Partito Democratico per chiedere se potevo tesserarmi. Nessuno ha saputo dirmi come. Devo andare alla sede di quartiere, pare. Se nel XXI secolo, per aderire a un partito, devo fisicamente recarmi nella sua sede, agli orari di apertura prefissati, e non posso farlo online, virtualmente, in tre minuti, significa che siamo ancora legati a un mondo che non esiste, alle sezioni di partito in cui i pensionati giocano a carte il sabato pomeriggio, mentre invece attorno tutto è fluido e vorticoso e i destini si inseguono tra i continenti, sul web e nei cieli, nei mari e nelle strade, e le migliori energie di una generazione rimangono inutilizzate, deviate verso altre direzioni.

Ho quasi 44 anni. Vedo al potere gente ultrasessantenne, ultrasettantenne, che non ha alcuna oggettiva conoscenza del mondo oggi e che pretende di governarlo. Alle mie spalle, vedo una generazione di ventenni trasformati in adolescenti e di trentenni agguerriti che, ironicamente, sgomitano a tal punto che finiranno per sorpassare noi figli degli anni ’60, gli ultimi cresciuti con i due blocchi, con la convention ad excludendum, con la Democrazie Cristiana, le assemblee di istituto, i referendum sul divorzio e sull’aborto, una politica partecipativa in cui credevamo ma che ha finito per autoalimentare solo se stessa e trasformare l’Italia nella più patetica gerontocrazia dell’Occidente.

Ecco, sulle ultime file dell’autobus ci siamo proprio noi, senza diritto ala guida fino al 2013 almeno, in questo stato di disillusione permanente, di shock politico prolungato. E magari preferiamo parlare di viaggi, economia, musica, libri, filosofia, religione, costume. O produrre, creare, immaginare, scrivere. Tutto, pur di sopravvivere nella notte, pur di mantenere viva una speranza, pur piccola, pur microscopica, pur luminosa.



20 marzo 2009

Elogio dell'ombra

Tre Olmi è come suggerisce il toponimo: tre case oltre la tangenziale di Modena, tre strade, molti pioppi, a schermare la pianura, e la sensazione di essere oltre la città in un senso più profondo della geografia: case che un tempo erano fattorie in mezzo al nulla e che ora sono a fianco di villette, pub e caseggiati, qualche parcheggio, e soprattutto lo spazio, piatto e implacabile, che sa di inverni di brina e grigiore e di estati implacabili e afose.

A Tre Olmi ha lo studio Andrea Chiesi, ex-fumettista visto su L’Eternauta (in un’altra era geologica, editorialmente parlando) e oggi pittore di ombre e luce, di interni industrali e burocratici, di spazi chiusi e vuoti. Ci siamo conosciuti alla Galleria Otto di Bologna anni fa, a un suo vernissage. All’epoca dipingeva scene di periferia, altalene vuote in parchi gioco deserti di notte, pali della luce su arterie periferiche. Mi sembrava una pittura di fantasmi, un’evocazione di presenze, una sorta di incantesimo artistico per richiamare sulla tela gli spettri veri o presunti di un esistenza urbana contemporanea senza pietà o compassione.
Oggi Andrea dipinge altro. Capannoni industriali, gasometri, archivi, biblioteche, uffici, sale d’aspetto. In un rigoroso bianco, grigio e nero. Lo vado a trovare nel suo studio e noto ci sono solo tubi e tubi di pittura di questi colori. Ne chiedo di sentire l’odore, che va alla testa subito, è piacevolmente intossicante, è una di quelle cose che dà corpo all’arte, nella sua essenza terrena, materica, analogica. Andrea ha un sito, ma nessuna scansione può rendere la texture della tela, i riflessi della luce di marzo sulle tele rigorosamente senza cornice o vetro, appese nello studio, qua a Tre Olmi, oltre la tangenziale.
Nei quadri di Andrea c’è un iperrealismo che iperrealismo non è. Non sono luoghi reali, questi, nonostante le sue pennellate ne ricalchino le forme. Sono trasfigurati dal bianco e nero, sono squarci di luce nelle ombre, sono spazi vuoti, vuotissimi, dove forse nessuno ha mai camminato o camminerà, nessuno parlerà, amerà. Sono forse metafore dello spirito, delle sue notti, ombre, di luci alla fine del corridoio, forse uno squarcio di cielo dietro una vetrata, un altrove dietro una porta chiusa, in cima a una scala a chiocciola. E forse in quelle luci, in quegli altrove, ci saranno persone e vita e colori, ma per adesso fissando i quadri si rimane qui, nel nero, nel grigio, nel bianco, a scrutare e scrutarsi, mentre è marzo fuori e da qualche parte una finestra si apre, una persona entra in una stanza.




19 marzo 2009

Spring Haiku


Autumn Haiku for a Body
Inserito originariamente da Osvaldo_Zoom

I miei lettori fedeli reclamano nuovi post. Mi dicono “Dove sei finito. Ci manchi.”
E un po’ è vero che vi trascuro. Insisto a dire che bloggare nell’era di Facebook è diventato qualcosa di diverso. Qua limo ogni parola, impiego anche un’ora a scrivere un post, spesso nel cuore della notte o su un volo diretto chissà dove, con le cuffie dell’iPod in testa.
Su Facebook e in maniera minore su Twitter si condensa tutto in 140-160 caratteri, le piccole cose del giorno, gli umori, i minima immoralia e i minima moralia delle giornate del 2009.
Ed è sorprendente che a volte non serva altro, In pochissimi caratteri, quasi un haiku, si riesce a condensare un’emozione, una recensione, quello che succede.
Ricordo che fin da bambino ho avuto una passione per i riassunti. Prendere una storia e condensarla in trenta righe. In venti. In dieci. In una frase. Ricordo che a sette anni ci diedero una favola da riassumere, e la riassunsi –correttamente – in una riga. Spesso non serve altro, è il famoso “pitch”, il lancio del battitore che a Hollywood è diventato il sinonimo della proposta lampo, della frase che uno sceneggiatore usa per vendere un film a un produttore, e il produttore agli investitori e al regista, e gli addetti di marketing al pubblico, e parecchi spettatori ai loro amici.
Se una storia non è condensabile in un pitch, si dice, a Hollywood non può funzionare. Ma forse è vero per tutto, dall’Iliade a Lost, dall’Eneide al nuovo romanzo di 900 pagine di qualsiasi nobel della letteratura.

A volte penso quindi che dovrei in questo blog fare dei micro post. O bloggare una volta alla settimana con una serie di pensierini. Peraltro, a breve, partirà sul sito della mia azienda un blog ufficiale a tema “fumetti” (o meglio “fumetti Panini e politiche editoriali Panini”), liberando così Nova100 da interventi che spesso assomigliano alle discussioni di una riunione di condominio per utenti estranei al mundillo dei comics e dintorni. Si chiamerà “Io sono l’altro”, e solo i lettori Panini hard core possono capire l’oscuro riferimento fumettistico di questo titolo.

Quindi, su questo blog, resteranno il cinema, la vita, i libri, i fumetti in generale e non dal punto di vista di Direttore Publishing della Panini, la musica, la TV, i media, magari un po’ di politica, di psicologia, di cose mie personali che magari a voi non interessano in generale ma che mi permettono di chiarirmi la testa, a volte, di mettere agli atti delle cose di me, renderle, se volete, più chiare, nero su bianco su uno schermo, scolpite ad aeternum nella memoria virtuale del mondo che nulla perde o dimentica.



14 marzo 2009

Toppi


Toppi in color
Inserito originariamente da Marco40134

L'ho incontrato, alla vernice della sua mostra di Bologna, il maestro Sergio Toppi. Gli ho stretto la mano, ricordandogli quel volume della serie di Repubblica fatto assieme qualche anno fa, e lui si è schernito quando l'ho chiamato "maestro". "Ma che maestro e maestro". "Sergio, allora?" "Sergio va benissimo".

Per chi è cresciuto leggendo il Corriere dei Ragazzi, Linus, L'Eternauta, Toppi è un vecchio amico, un "autore per gli autori", molto amato, molto ripreso da altri artisti, ma estraneo ai fasti del grande pubblico.
Nelle sue tavole il tempo è rarefatto, l'azione cristallizzata, l'emozione la percepiamo distorta da una spessa lente di distanza nello spazio e nel tempo. Eppure ogni tavola è un gioiello, ogni vignetta un viaggio in un altro mondo, un altro momento della storia e di noi.

Non ci sono altri autori come lui. Forse solo DeLuca, ospite l'anno scorso sempre qui al Museo Archeologico di Bologna, anche lui a BilBolBul, aveva la stessa personale visione di stile e di composizione della tavola, senza incertezze, senza dubbi, senza compromessi.
Oggi, nella marmellata di stili che impera, ironicamente un autore altrettanto originale faticherebbe a imporsi. Perdetevi quindi nelle sale del museo, tra le sue tavole: sarà un'emozione che non si ripeterà facilmente, non sui fumetti, non per molti anni.




08 marzo 2009

At midnight, all the agents (una recensione di WATCHMEN)

Come si può tradurre per il grande schermo la graphic novel più importante del fumetto in lingua inglese? Come si possono condensare in 156 minuti le 408 pagine che Alan Moore e Dave Gibbons regalarono al mondo nel 1988, cambiando e rivoluzionando definitivamente tutto l'immaginario dei super eroi, rivelandocene l'orrore e la gloria, e creando un universo parallelo di infinita complessità e visionario sense of wonder?
Le domande vengono spontanee avvicinandosi al film di Zach Snyder appena uscito in Italia e nel resto del mondo. Davanti a un'opera a fumetti così complessa, che condensa una quantità così fitta di idee e di concetti, che dipinge un universo intero parallelo e confluente al nostro, il film si pone con una sorta di umiltà deferente ma non passiva. Da un lato riprende gran parte del fumetto quasi scena per scena, dettaglio per dettaglio, battuta per battuta, inchinandosi al genio di Moore e Gibbons; dall'altro si permette di prendersi qualche inevitabile libertà. Accentua le scene di azione e violenza, spesso oltre l'eccesso, rende più esplicite persino le poche scene di sesso, che all'epoca furono le prime rappresentazioni realistiche di coiti tra un uomo e una donna all'interno di un albo a fumetti americano, e che trasferiti sul grande schermo non rendono proprio al 100% la loro natura innovativa.

Snyder interviene persino sul finale del fumetto, che ne rappresentava forse il tallone d'achille, rendendolo ironicamente migliore, più logico, efficace.

Per chi ha letto e conosce bene il fumetto, assistere al film è un'esperienza: sono rimasto in bilico tra il riconoscere tutti gli elementi che amavo, nei dialoghi, nella sceneggiatura, nei dettagli delle scene, e nel notare tutto quello che Snyder ha aggiunto, per rendere più cinematografico il tutto per lasciare il segno, rendere WATCHMEN un film da XXI secolo a vent'anni dalla sua prima edizione cartacea.
Le cose che ho amato sono i personaggi, splendidamente resi, che praticamente  sembrano ricalcati sui disegni di Gibbons: lo sguardo da pazzo di Kovacs, la testa spaccata di un cane, il sorriso di Ozymandias, l'espressione assente del Dr Manhattan, la pancetta di Gufo Notturno, il sorriso rovesciato dello psichiatra che ha in cura Rorshach. Ho amato anche le scene al rallentatore, e i clip musicali con canzoni anni '80, due aspetti molto criticati ma che si giustificano pensando che Snyder ha dovuto rendere al cinema un fumetto graficamente definito in maniera assolutamente rigida e maniacale, che in sé e per sé non poteve essere tradotto visivamente nello stesso modo e che doveva quindi trovare sul grande schermo una sua voce, una sua firma iconica.

Ho amato meno gli eccessi di violenza e di sangue, esageratissimi rispetto alle coreografie molto contenute di Gibbons. Anche qui, il regista ha cercato di trovare una sua voce, ma a volte ho avuto l'impressione che fosse un po' troppo acuta, un po' troppo gracchiante.

Nel complesso, credo però che sia un film bellissimo, voto "tra l'8 e il 9", risultato grandioso se si pensa alla sfida di realizzare "il film irrealizzabile", di dare voce, movimento, musica, alle parole di Moore e ai disegni di Gibbons, alla loro cosmogonia parallela, al loro viaggio nella storia, nell'universo dentro e fuori di noi.


P.S. Consiglio a tutti i fan di WATCHMEN fumetto di non perdere WATCHING THE WATCHMEN, il making of della serie originale, da pochissimo edito da Panini Comics