14 luglio 2005

Famous blue skyline


Il terzo giorno in California si apre con una lunga strategy session con gli altri colleghi venuti con me. Si parla soprattutto di manga, e di una serie di tematiche a lunga scadenza che riguardano in mercato nipponico, per certi versi sempre più difficile ultimamente. Passiamo due ore nel patio dell’hotel, bevendo caffelatte e passando in rassegna strategie e idee. Verso mezzogiorno ci dividiamo: mentre Tony e Simone si avviano in auto verso San Diego, io e Sebastien andiamo a Century City per un lungo incontro di lavoro/pranzo con i rappresentanti della Bongo (gli editori dei Simpsons). In un grattacielo di oltre 40 piani, con tutta Los Angeles ai miei piedi, mentre aspetto che ci vengano a prendere per portarci nella sala riunioni, capisco quanto sia lontana questa realtà da quella normale del mondo dei comics. I rappresentanti dei Simpsons sono infatti un gruppo di avvocati, e il loro ufficio sembra uscito da LA LAW, con sale riunioni dalle pareti di cristallo opacizzato e finestre a muro aperte su un panorama mozzafiato, con pranzi di lavoro a base di risotto e costolette d’agnello con Perrier anziché di coca cola e panini come alla Panini. Finito l’incontro, prendiamo un taxi verso la stazione di Los Angeles, per prendere il treno delle 16.10 che ci porterà a San Diego. La città assolata e verdissima mi lascia senza fiato, con i suoi parchi, le sue palme, le case in stile spagnolo con il colonnato sul davanti, e questa aria di luminosa irrealtà. Preferirei di certo vivere qui piuttosto che a New York, se proprio un giorno dovessi venire ad abitare negli States (tocchiamo ferro!).

Union Station lascia a mozzafiato sia me sia Seb. In un paese dove non sopravvive NULLA di antico, la stazione ha almeno 100 anni, con lampadari, sedie e arredi d’epoca. Mi sembra d’essere in uno dei romanzi di Michael Connelly, il creatore di Harry Botsch, che in tutti i suoi gialli ricrea ed esalta un’idea romantica, trasognata e trasognante della Città degli Angeli. Il treno costa relativamente poco (circa 35 euro in prima classe per un tragitto di tre ore), con tanto di merenda a base di junk food e bottiglietta di vino omaggio. Si compone solo di DUE vagoni, su due piani, e ogni postazione ha una presa di corrente per attaccare il computer. Se avessi il wi-fi nel PC su cui sto scrivendo, potrei collegarmi alla rete gratuitamente.

Il tragitto procede tranquillo, da un certo punto in poi a binario unico. Dai finestrini vedo passare per circa un’ora e mezza i sobborghi sud di Los Angeles, poi da San Juan Capistrano in poi solo campagna e spiagge, con qualche turista che passeggia, e una miriade di surfisti in acqua che aspettano le onde. Seb e io parliamo di lavoro fitti fitti, un po’ preoccupati dal fatto che da qualche ora la rete mobile degli USA non supporta più il roaming, e quindi nessuno dei nostri telefonini funziona. La sensazione di spaesamento da mancanza di cellulare è estraniante. Per certi versi, il “cell” è il nostro cordone ombelicale, ciò che ci tiene in contatto con gli altri in ogni momento. Esserne privi, pensare di dover dare e prendere appuntamenti inderogabili per non perdersi, è davvero una cosa bizzarra, cui non siamo più abituati.

Alle 19.15, eccoci a San Diego. La città mi accoglie bene, non ci sono ricordi negativi in queste strade ancora praticamente vuote. I colori sono l’arancio, e il bianco, e l’azzurro latte del mare pieno di portaerei e di barche di diporto. E’ la mia quattordicesima San Diego. Ogni volta che lo ripeto o me lo ripeto mi sento davvero un po’ troppo vecchio, e ripenso a quanto sono cambiato io e a quanto è cambiata la città. In 14 anni il centro è stato trasformato, ogni anno c’è un nuovo hotel, un nuovo grattacielo, un nuovo negozio. Stavolta scendiamo all’Omni, un hotel di design che fa parte di una catena coreana, proprio davanti al convention center. Ci danno due camere al 21 piano, e in hotel ritroviamo Tony e Seb, anche loro un po’ spaventati dal black out telefonico, che interessa tutti i gestori di tutti i paesi fuori dagli USA.

Ci accreditiamo alla fiera, e facciamo un primo giro di perlustrazione. Gli stand sono più faraonici che mai, a quello DC ritroviamo Sara, uno degli editor di Panini, con il suo ragazzo Lee (Bermejo) e vari altri italiani.

Rientrando in hotel, vedo Enrico Fornaroli, anche lui qui, e finalmente ritrovo Francesco Meo, che ospiterò nella mia doppia durante tutta la fiera (in America è una cosa possibile, dato che il costo di una singola o una doppia è identico, e ci possono dormire indifferentemente uno o due persone o più). Ceno in un giapponese con Seb, un sushi decisamente buono, e poi crollo in camera, ascoltando un CD di classici di Leonard Cohen appena comprato (e imparando finalmente bene il testo di Famous Blue Raincoat, una delle mie canzoni preferite…).
3-continua

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