Il vento di ponente si è levato, come succede sempre dopo Ferragosto a queste latitudini, portando aria fresca e mare grosso. In queste occasioni si fanno passeggiate, o si rimane in terrazza a leggere, e oggi mi sono dedicato proprio a questo. Ho finito Dies Irae, e completata in una sola sessione la lettura di Ilium, di Dan Simmons.
Dies Irae, di Giuseppe Genna, mi è stato regalato per il mio compleanno, da un’amica che lo aveva letto e me lo raccomandava caldamente. Ho iniziato a leggerlo contemporaneamente ai capitoli finali di Underworld, ignorando che del romanzo di DeLillo questo è un vero e proprio omaggio, per non dire pastiche. Stessa struttura, stessa volontà di mantenere uno stile letterario lirico e alto, varie citazioni di DeLillo, e per finire, i due romanzi si chiudono con la stessa parola (no, non è “fine”, ma un’altra parola, una delle più importanti e cruciali dell’esperienza umana, che non posso rivelarvi dato che DeLillo ci costruisce sopra l’intero finale di Underworld, ed è importante arrivare a quell’ultima parola senza sapere di quale si tratta).
Dies Irae, se UW parla di 50 anni di storia americana, parla di 25 anni di storia e misteri italiani, da Vermicino a oggi. Il primo capitolo – uno dei migliori – ricostruisce la tragedia di Alfredino Rampi, il bambino che cadde in un pozzo artesiano e non riuscì a essere salvato, morendo in diretta TV e coagulando forse per la prima volta l’intero paese in un rito emotitivo collettivo davanti agli schermi catodici. Il secondo ci porta al presente e ci presenta i tre personaggi del romanzo: lo stesso autore, Giuseppe Genna, immerso in una profonda crisi depressiva; la psicologa Paola, che da una depressione inimmaginabile ha saputo uscire; la signora di buona famiglia Monica, anch’essa testimone di vari orrori e tragedie nella sua vita di (pseudo) privilegiata.
E come in Underworld, il resto del libro racconta gli eventi che collegano il primo al secondo capitolo, anche se Genna non si azzarda, come DeLillo, a presentarceli in ordine cronologico inverso, ma più tradizionalmente li snocciola nella loro corretta sequenza, inframmezzandoli con frammenti di un altro Dies Irae, immaginario romanzo di fantascienza incompiuto dello stesso Genna che in pratica racconta in oltre 1.727.000 pagine la storia della fine della razza umana.
Le vicende personali di Giuseppe, Paola e Monica, tutte sostanzialmente segnate dalla depressione, dalla malattia, dalla rovina familiare, sono intersecate con i misteri più oscuri d’Italia: dalla morte di Alfredino, ordita da agenti dei servizi, all'ascesa di Cravi, alla scomparsa di Emanuela Orlandi, collegata a una relazione “con il più alto dei prelati”, fino al destino della stessa Moana Pozzi, che viene a conoscere il segreto di Alfredino dopo una notte di sesso con l’agente che lo ha fatto morire. Ironicamente, le parti più deboli del romanzo sono forse quelle dedicate ai “misteri” di cui sopra, mentre più riusciti sono i capitoli in cui appaiono nella loro nuda crudezza la depressione di Genna, il passato di violenza carnale, incesto, prostituzione e droga di Paola, lo squallore di borghesia in declino di Monica. Lo stile di Genna, francamente a tratti ossessivamente eccessivo, a volte ripetitivo, altre impietosamente inferiore al suo modello, decolla soprattutto nelle pagine più sinceramente personali, in cui i drammi suoi e delle sue eroine ci vengono svelati con compassione e pietas.
E la conclusione, in cui la psicoterapia, soprattutto nella versione non verbale della dance therapy, assume un ruolo salvifico, è così forte che mi riesce difficile pensare che Genna non abbia personalmente compiuto un percorso di guarigione di questo genere, e che forse Dies Irae sia per lui un lungo, complesso, atto di elaborazione di un lutto altrimenti non affrontabile.
Papà, addio.
Mi contengo, non vedendo, non so niente, mi dimentico di tutto il tempo prima e dopo, attraversando con movenze mie di cui non ho intelletto il momento buio, afferrabile e inafferrabile, di questo scivoloso presente che slitta nel momento buio e successivo.
Sei una presenza. Sono una presenza io e tu, papà, sei una presenza che è stata e ha compiuto quanto poteva e doveva compiere, e le parole non servivano, nemmeno l’abbraccio che ci siamo dati a occhi chiusi, non il tocco, ma semplicemente esserci e avere trascorso insieme le distanze che abbiamo potuto e dovuto percorrere, a occhi chiusi, dimenticando e tu e io le larve neroviola (---), l’istante ripulito, liscio, dolcemente buio, numinoso come l’oro incalcolabile che è sepolto in un cavo fondo e non smette di parlare senza parole, una lingua aerea che comprendiamo senza sintassi, una lingua istantanea che genera il tocco della mia mano sulla tua fronte fredda risollevata dal parquet della tua stanza, niente è distaccato da niente, ogni cosa compartecipa dell’ordine instabile che si dispone in armonia---
Da leggere, con qualche caveat, ma da leggere.
La recensione di Ilium .--- tra qualche giorno: ora devo leggere la seconda e ultima parte, Olympos
3 commenti:
Più o meno era quanto mi immaginavo a proposito del libro di Genna. Rimanderò l'acquisto.
"Ilium": ho letto il primo volume e l'ho trovato soddisfacente. Il secondo è "in attesa" da qualche tempo ma non mi è venuta ancora voglia di aprirlo, forse perché traumatizzato da "La Caduta di Hyperion", seconda, indigesta parte dell'invece splendido "Hyperion".
Beh, ti consiglio di leggere i seguiti di Hyperion, Endymion e l'Ascesa di Endymion, non sono male...
Sì, letti tutti, ma non è il Dan Simmons che preferisco e che mi appassiona: quello che mi impressionò con "Carrion Comfort", che mi incise l'anima con "Il canto di Kali" e che - poco tempo fa - mi ha fulminato ancora con "Lungo una strada pericolosa".
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