12 agosto 2006

La nube della non conoscenza


underworld
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Underworld è un romanzo che da quando è uscito orbita alla periferia della mia attenzione. Sapevo che era un capolavoro, sapevo che un appassionato di letteratura angloamericana come me non poteva non leggerlo, ma l’ho volutamente ignorato per anni. Non erano le dimensioni, circa 1000 pagine, a spaventarmi: posso divorare in tre giorni quasi qualsiasi romanzo di quelle dimensioni. Era forse l’argomento del capitolo uno – una sorta di romanzo nel romanzo dedicato a una famosa partita di baseball al Polo Grounds di New York del 1951 tra Giants e Dodgers - a indispormi. Anni di frequentazioni del baseball virtuale dentro Peanuts non mi hanno ancora fatto amare questo sport, e rimango religiosamente alla larga da qualsivoglia film o libro dedicato a questo argomento.
Si trattava però di un pregiudizio infondato, di una misconception. Underworld non è un libro sul baseball più di quanto la Recherche sia un romanzo sul consumo di madeleines o Ulysses un romanzo sulle torri di guardia della baia di Dublino.
Se il primo capitolo è in effetti tutto sul baseball – un vero e proprio mini-capolavoro letterario uscito in origine su rivista come racconto, leggibile a sé stante, che presagisce tutti i temi del resto del libro e ne stabilisce il ritmo lirico del testo e il colore, il secondo – forse il mio preferito – ci porta al presente, alla vita di un uomo adulto di nome Nick Shay, che nel 1951 era a sua volta bambino, nel Bronx, a pochi isolati dallo stadio di baseball di cui sopra.
Nick oggi fa il manager in una ditta di smaltimento rifiuti e un giorno scopre che una sua fiamma di gioventù – Klara Sax, oggi artista di fama mondiale - ha allestito un’istallazione d’arte moderna nel deserto: d’impulso abbandona il suo itinerario, e si butta nel deserto per incontrare di nuovo questa donna, molto più anziana di lui, ex moglie del suo insegnante di scienze, con cui da ragazzo ebbe un fugace e colpevole intermezzo sessuale.

Qual è il collegamento tra il primo e il secondo capitolo? Nella famosa partita “che fece il giro del mondo”, la palla da baseball dell’home run finale scomparve, portata a casa da un ragazzino di colore, Cotter, che si era intrufolato alla stadio senza pagare il biglietto. Nel secondo capitolo, cinquant’anni dopo, l’elusivo e misterioso cimelio è finito proprio nelle mani di Nick, dopo un pellegrinaggio decennale da una mano all’altra, percorrendo la storia d’America attraverso gli strati sociali e culturali.

Underworld, nello splendore delle sue 886 pagine ricche di personaggi, luoghi, momenti, ci trasporta nella rete sotterranea dell’esistenza, nei cunicoli nascosti della storia e delle storie, collegando i due momenti, il passato e il presente, e intersecando la narrazione con divagazioni sulla vita, la morte, la guerra, il destino, la perdita di spiritualità della società, le mille miserie e le mille glorie di un’umanità dolorante, rassegnata, ma sempre bramosa di uno scampolo di vita e di redenzione. DeLillo ci catapulta nella vita di Nick, di sua madre, di suo fratello, di sua moglie, dell’amante di lei, di Klara, del suo ex-marito, della sua terribile insegnante di scuola cattolica, Suor Edgar, e oltre alle loro vite ci presenta anche quelle di commediografi e politici, di serial killer e graffitisti, regalandoci anche un prezioso intermezzo su Edgar Hoover, il paranoico capo dell’FBI dell’epoca della caccia alle streghe, dipinto in maniera ineffabile, in tutta la sua follia e la sua umana, repressa, fragilità, nonché la rapsodica descrizione di Unterwelt, finto film di Eisenstein.

Underworld – il “mondo sotterraneo” – vuole tessere l’affresco di cinquant’anni di storia americana, attraverso le sue ossessioni, due su tutte: la bomba atomica e i rifiuti, la spazzatura. Quest’ultima è la metafora dell’esistenza, nel mondo della piccola comedie humaine di DeLillo, che ci racconta le vite di un manipolo di personaggi che si disfano di pezzi di sé man mano che sono trascinati nel gorgo della (loro) storia, ma allo stesso tempo rimangono ferocemente attaccati a qualche piccolo, apparentemente inutile, brandello di memoria (un sentimento, una vecchia foto, un ricordo, una palla da baseball consunta) che possa loro permettere di sentirsi ancora vivi, come nei "giorni in cui ero giovane sulla terra, guizzante nel vivo della pelle, imprudente e reale".


La struttura del romanzo è particolarissima. Ogni sezione procede a ritroso, indietro nel tempo, dal presente fino agli anni ’50, per poi tornare al presente nel finale, ma tra una sezione e l’altra, brevi capitoli ambientati nel ‘51 ci raccontano il dramma del padre di Cotter, e della sua decisione di vendere la palla da baseball, rubandola al figlio.
Sembra una struttura farraginosa, ma è forse una delle intuizioni creative più geniali di DeLillo. Il passato che segue il presente, e che spiega il presente. Il presente che anticipa il passato, citando luoghi ed eventi trascorsi, che successivamente vengono espansi. I misteri di oggi, che solo nella narrazione del passato trovano una spiegazione, in un reticolo di rimandi e riferimenti incrociati che occorrerebbe leggere due o più volte per afferrare nella sua completezza.

Lo stile di DeLillo lo avete visto nei due brani che ho recentemente riportato in questo blog. E’ uno stile ipnotico, ritmato, fa venire voglia di leggere ad alta voce. Visionario e musicale, conclude ogni capitolo con una frase a effetto, con un’immagine, un guizzo, una o due righe che mozzano il fiato, che ti colpiscono in fronte con l’impatto della loro liricità.

Un libro che va affrontato con rispetto e amore, uno di quei libri che fa faticare e incanta al tempo stesso, rapisce con le parole, turba e commuove con le sue immagini.

2 commenti:

Alessandro Di Nocera ha detto...

La letteratura americana (quella "alta" così come quella "bassa") possiede l'incredibile capacità di cogliere appieno lo spirito dei tempi e, allo stesso tempo, di trasformare una storia in un universo esistenziale che non può non essere percepito come proprio, come appartenente al privato del lettore.

Forse perché l'America è una sorta di paese zen che non esiste se non in un personale, individuale flusso di coscienza.

Dopo aver letto il tuo "estratto" riguardante il deserto, mi sono tornate alla memoria le emozioni che mi pervadevano mentre attraversavo in auto la Interstate 10.

Deserto del New Mexico: la sensazione costante di un paesaggio vergine che lasciava presagire l'emergere dal nulla di una realtà da "riempire" con la propria summa di aspettative e di desideri.
E ogni tanto, sui margini della strada, dei villaggi-baraccopoli frustati dal vento che erano come messaggi che ti ricordavano il costo che quelle aspettative e quei desideri possono avere.

Di De Lillo ho letto "Libra" e 2Rumore Bianco". "Underworld" mi manca, ma presto porrò rimedio.

Piuttosto: aspetto, su queste pagine, una tua recensione di "Dies Irae".

Ai@ce ha detto...

Ciao,
anch'io ho appena concluso il tomo di Don DeLillo e sono rimasto affascinato. Dopo Rumore Bianco, Mao II e I nomi non pensavo di confrontarmi ancora con lui ma ho ceduto... ed ho fatto bene, in questo romanzo si rivela veramente uno scrittore memorabile.Ho letto il libro con passione, amandolo come non mi succedeva da diversi lustri con i romanzi di Thomas Mann o con la scrittura analitica ed essenziale di Calvino. Ma non si possono certo fare paragoni, DeLillo è uno dei massimi scrittori americani del secolo capace di reinventare il romanzo. I passi sulla spazzatura, sulla bomba mi sembrano spezzoni di film di Kubrick, immortali.